In rapporto al concetto che si ha della persona, si calibrano le azioni. Le parole inducono sempre ad azioni e comportamenti. Mezzo secolo fa si parlava di persone “menomate”, di “minorazioni fisiche o psichiche”. Poi si è passati ad “invalidi”, a “persone invalide”, ad “handicappati”, a “portatori di handicap” ed oggi a “diversamente abili”.Sono termini che non possono essere accettati. C’è differenza tra deficit, handicap e disabilità. Occorre qui basarsi sulla terminologia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1980 che è ancora valida e va usata perché è la matrice culturale fondamentale della successiva evoluzione terminologica. Con deficit intendiamo un esito corporeo, strutturale e funzionale, di un accidente fisico, un trauma, una malattia, un evento biologico, che danneggia o modifica in senso negativo le strutture e le funzionalità del corpo. Il deficit può condurre alla disabilità: la persona cioè può avere conseguenze nelle proprie competenze motorie, cognitive, comunicative, sensoriali, emozionali, ecc. Tuttavia le disabilità possono essere anche la conseguenza di mancanza di stimolazione, attività, educazione o riabilitazione. In questi casi la disabilità viene prodotta direttamente dalla società.
Ma il prodotto sociale più eclatante e nocivo è l’handicap che consiste nell’emarginazione, nello svantaggio esistenziale, nell’esclusione e nella discriminazione come frutto di fattori culturali, sociali, economici, psicologici, ecc. Se questi fattori emarginanti non esercitassero la loro opera distruttiva, in teoria, potrebbe esistere una persona disabile, anche grave, ma non in situazione di handicap. (Dario Ianes).
Deficit, disabilità ed handicap sono quindi tre parole diverse che racchiudono concetti diversi e in nessun caso possono essere utilizzati l’uno come il sinonimo dell’altro.
Per fortuna oggi nessuno si sogna più di parlare di persone “menomate” per indicare le persone con disabilità come nessuno usa più il termine “serva” per indicare una collaboratrice domestica. Sono termini in disuso come “zoppo”, “mongoloide”, “spazzino”, ecc., semplicemente perché ormai questi termini non corrispondono più ai nuovi concetti che la società moderna ha delle corrispondenti persone. La vecchia terminologia, una volta consueta ed accettata, oggi è spesso rifiutata come offensiva e lesiva della persona e della sua dignità. Al pari non possiamo più parlare di “invalidi” perché “invalido” significa “non valido”, insomma, una persona che non vale nulla! Vi immaginate dei servizi per gli “invalidi”?
Rimane “handicappato” o “portatore di handicap” Abbiamo visto che cosa si indica con il termine “handicap”. Al limite, dire ad una persona che è un portatore di handicap o un handicappato non è un’offesa ma una tragica realtà: egli, infatti, “porterebbe” l’handicap che la società ha creato per lui! Ma il fatto è che questi termini sono ormai un’autentica offesa: basti pensare ai giovani che ricorrono alla parola “handicappato” quando vogliono offendere qualcuno.
Le cose non vanno meglio per “diversamente abili”. Se il concetto di diversità, insito nel termine, si riferisce ad un’idea astratta di abilità, allora c’è da dire che tutti siamo diversamente abili: c’è infatti chi fa il medico, chi il muratore, chi la sarta, il falegname, ecc. e ciascuno di questi, con molta probabilità, non saprebbe fare un lavoro diverso. In alternativa, il termine potrebbe essere usato per intendere “abilità diverse”. In questo caso la mia “abilità”, quella, ad esempio, di fare il manovale, potrebbe essere diversa dalla tua, che fai ugualmente il manovale: ciò significa, allora, che io sono più bravo di te a svolgere lo stesso lavoro. Ed anche qui nulla da eccepire. Ma sia nell’una che nell’altra ipotesi non avrebbe allora senso parlare di “diversamente abili”, tanto più se usiamo il termine riferendoci ad una ben precisa categoria di persone come lo sono quelle con disabilità. Se invece intendiamo, come era nelle intenzioni di chi ha coniato il termine, che una persona, per il solo fatto di portarsi dietro un deficit, sviluppa “abilità diverse”, questo non solo potrebbe essere offensivo ma addirittura non corrispondente alla realtà. Innanzi tutto una persona o ha delle abilità oppure non ce l’ha. Se sviluppa altre abilità non si capisce come potrebbero queste essere diverse da quelle delle altre persone. Infatti, se fosse il contrario, vorrebbe dire che chi è “diversamente abile” svolge azioni, attività o altro in maniera “diversa” da come potrebbe svolgerle un’altra persona. Ad esempio, potrebbe voler dire che un “diversamente abile” laureato in matematica, per il solo fatto del suo deficit, poniamo motorio, spieghi ai suoi allievi le equazioni differenziali in maniera “diversa” da come le potrebbe spiegare un suo collega. Il che non è assolutamente logico. Inoltre, il termine “diversamente” evoca una diversità sulla quale ancora si discute se rappresenti o meno un valore. Trattandosi di persone con disabilità, e avendo posto che esse sono uguali alle altre persone, non si giustifica una loro presunta diversità seppure intesa in senso positivo.
Le alternative possibili sono: “persone disabili” o “disabili” e “persone con disabilità”. Riguardo alla prima opzione, si tratta di terminologia accettata da molte organizzazioni internazionali mentre per la seconda si tratta di terminologia ancora più avanzata ed appropriata rispetto alla prima, seppure meno diffusa. Se per disabilità si intende l’incapacità a fare qualcosa, allora siamo tutti disabili in quanto nessuno è dotato di tutte le possibili capacità umane. Il problema sta nel fatto che con “disabili” si indicano soltanto coloro che sono privi di alcune capacità. E ciò può condurre facilmente al concetto di “diverso” in senso negativo e discriminatorio. “Persona con disabilità” è allora da preferire in quanto scinde il concetto di persona (che rimane integra nella sua dignità ed umanità) dal concetto di “disabilità” (che invece indica una oggettiva incapacità a fare qualcosa). In altre parole, la persona con disabilità è una persona come tutte le altre ma con una forma di disagio che non dipende da una sua presunta ed oggettiva diversità quanto da un fatto contingente e talvolta esterno alla persona stessa. Vialibera fa proprio il termine “persona con disabilità”. In attesa che la cultura umana cancelli definitivamente il pregiudizio del “diverso” e che quindi non senta più la necessità di delimitare in categorie la collettività…